L'INTONACO DEUMIDIFICANTE
La traduzione e l’interpretazione dei testi classici hanno prodotto, attraverso i secoli, il perpetuarsi di un’Arte ancor valida ai giorni nostri. Il processo di trasmissione del sapere, da Mastro a giovane di Bottega, di generazione in generazione, ha consentito una lenta, continua evoluzione delle conoscenze, che hanno lasciato preziose memorie sul nostro territorio.
Se da un lato i professionisti del restauro tendono ad applicare materie e modi di costruire del passato, perche più in aderenza alla verità storica del fabbricare, dall’altro, pero, vi e anche una consolidata propensione all’utilizzo di materiali e tecnologie moderni: i lunghi tempi di elaborazione e le tecniche costruttive del passato - che erano un patrimonio culturale dei costruttori d’un tempo - sembrano oggi quasi improponibili a causa dell’impossibilita di disporre delle tradizionali Arti dei vecchi Mastri. Non di meno, la mancanza delle materie originarie delle antiche ricette, sta causando, nella moderna produzione industriale, modificazioni tali da poter compromettere irreversibilmente una cultura che sembra oggi cadere nell’oblio.
L’obiettivo dell’ Accademia ha come scopo la riconquista delle antiche Regole poiché i Mastri, che in essa lavorano, hanno piena consapevolezza, che la loro conoscenza e l’unico supporto culturale che metta in grado il progettista-restauratore di valutare quali siano le caratteristiche dei materiali del passato e quali le virtù che li rendono ancor oggi compatibili col progetto di restauro.
Ulteriore scopo della nuova “Bottega” – Accademia - è quello di porre in rilievo scelte e strategie, che possano condurre gli operatori del settore, a riconvertire tecniche generalizzate ad un più specifico uso locale della materia e del colore, con particolare attenzione al patrimonio storico che caratterizza la cultura e l'ambiente in cui e inserito.
L’esperienza dell’Accademia si caratterizza in tecniche di consolidamento delle cortine ammalorate, scelta dei materiali più idonei, composizione delle malte e conseguenti innovative modificazioni, preparazione dei tinteggi e loro stesura, che si complementa con ogni altra forma artigianale di applicazione dei materiali, in stretta aderenza con la tradizione e le esigenze progettuali di ogni intervento a cui sono chiamati.
Le origini della ricerca
Nel 1770, M. Loriot, un eclettico ricercatore francese, primo meccanico di sua Maestà Luigi XV, pose quest’intrigante quesito: “Come si spiega che i romani abbiano costruito l’acquedotto, conosciuto col nome Pont du Gard, nelle prossimità di Nimes, senza far uso di pozzolana? Se hanno usato esclusivamente calce grassa, come e possibile che abbiano messo in uso l’acquedotto senza veder la calce dilavarsi?”.
Eppure l’incredibile opera e arrivata fino a noi in tutta la sua possanza.
Il celeberrimo Loriot, era convinto che i romani custodissero il segreto di un metodo di preparazione delle malte “acquatiche” e che non lo volessero divulgare.
Cosi, nelle Memoire sur une decouverte dans l'art de batir, faite par le Sr. Loriot, Mecanicien, Pensionnaire du Roi (A Paris, 1774), si impara sulla scoperta del geniale Loriot:
“Il signor Loriot, dopo aver esaminato quasi tutto ciò che i Romani hanno lasciato in Francia, si e intimamente convinto che essi non impiegavano materiali diversi da quelli di cui noi ci serviamo; che la calce, la sabbia, il cocciopesto, ed altre materie di questa specie, ottenevano da soli la perfezione di questi composti, ma che essi avevano un altro metodo rispetto al nostro nella manipolazione e la preparazione”.
Noi siamo convinti che oltre alle materie prime scelte dai Magister Calcariarum, siano state la sapiente preparazione ed applicazione delle malte a renderle cosi tenaci all’aggressione dell’acqua e dei sali. L’uso reiterato del Baculus nelle loro applicazioni doveva aver conferito ai manufatti una compattezza straordinaria, confinando il volume dei pori nella frazione microporosa. Il Baculus era un attrezzo simile ad uno spesso frattazzo quadrato, di metallo, di dimensioni ridotte; esso era dotato d’un manico ed era usato come un pesante martello per compattare lo strato d’intonaco facendone uscire tutta l’acqua d’impasto in esubero, riducendo le macroporosità a microporosità. Nelle malte romane costipate coi Baculus, che ancor oggi si mostrano integre, la porosimetria a mercurio ha indicato un diametro medio dei pori molto regolare (circa 0.1 μmicron), mentre i pori medi della malte degradate sono molto più grossi e coprono una gamma che va da 1 μm circa, fino a 22 μm, anche se la percentuale di porosità aperta e simile nei due casi (circa il 25%).
Baculus
Sicuramente l'osservazione microstrutturale della malta originale romana non degradata ha riservato le sorprese più grandi.
Le osservazioni al SEM hanno messo infatti in evidenza una microstruttura molto compatta (Fig. a) e molto simile a quella di un materiale ceramico sinterizzato, compresenza di grani addirittura submicronici. Questa compattezza ha sicuramente favorito la durabilità dell'opera. La malta degradata ha invece rivelato una microstruttura molto meno compatta con numerose cavità (Fig. b), a conferma dei risultati di porosimetria.
L’analisi alla microsonda sulle malte ha confermato i dati diffrattometrici: la causa del degrado della malta (b) va quindi cercata nei continui cicli di bagnasciuga che hanno portato ad una maggiore porosità, probabilmente anche a seguito di fenomeni di gelo e disgelo.
L’eccezionale compattezza della malta integra e un autentica testimonianza, a 2000 anni di distanza, della destrezza e dell’abilita della manodopera dell'epoca, anche in opere comuni, che purtroppo non sempre riscontriamo in era moderna. I muratori d’un tempo accompagnavano quindi intelligenza e abilità manuale, in piena aderenza con l’immutata aurea regola del costruire.
Sulla scorta di tutte le conoscenze pervenuteci e dalle indagini condotte sulle malte del passato, è stato dato vita ad un progetto volto ad identificare un sistema di deumidificazione che avesse le stesse caratteristiche dei manufatti del passato e che di questi avessero gli stessi risultati e le stesse garanzie.
Il nostro studio si è svolto, quindi, mirando a riprodurre e riproporre le stesse malte del passato, mettendo a disposizione del nostro gruppo di studio le medesime materie che la storia suggerisce, con la certezza della loro durabilità ed integra efficacia nel tempo.
Fig. a Malta romana integra
Fig. b Malta romana degradata
La riscoperta di un antico legante: la Calce Pozzolanica Romana
L’opera di ingegneria più prestigiosa dell’antichità e il Pantheon a Roma. Su questo stupefacente monumento, dedicato a tutte le divinità, insiste una volta a cupola in calcestruzzo alleggerito, il cui diametro raggiunge l’incredibile luce di 43,3 metri.
Prima che tale opera fosse eretta, nessuno aveva mai osato pensare di progettare una struttura di tale ardimento. Ne la maestosa cupola di Hagia Sophia ad Istambul (33 metri circa), ne la cupola di San Pietro, anch’essa a Roma (circa 42 metri), nonostante la loro imponenza, mostrano tutto il genio di chi la progetto e la capacita di chi la costruì, che solo ai nostri tempi e stato possibile sorpassare, grazie alla tecnica costruttiva del calcestruzzo armato. Come arrivarono i Romani a realizzare opere cosi prestigiose?
Fu l’uso dell’Opus Caementitium (anche: opus caementicium) che permise tanta bellezza.
Opus caementicium
La forma dell’elemento da costruire veniva ottenuta mediante una cassaforma costruita in pietre opportunamente posate, oppure formata da tavole e travi di legno; gli aggregati venivano accuratamente e prolungatamente mescolati alla malta.
Con l’indurimento del legante e la sua maturazione si otteneva un conglomerato assai resistente alla compressione, la cassaforma di legno veniva quindi rimossa, come si fa tutt’oggi, per essere eventualmente riutilizzata. Il termine Opus caementitium indica sia la tecnica, che la qualità del manufatto. La locuzione può pertanto essere tradotta come “costruzione in calcestruzzo” o più genericamente “calcestruzzo romano”.
Originariamente la tecnica di preparazione del calcestruzzo romano si sviluppo per contenere gli aggravi di spesa e per offrire soluzioni più spedite per la costruzione delle mura delle città, dei granai, delle conserve d’acqua, delle strutture portuali, degli acquedotti ed altro. A partire dalla meta del primo secolo della nostra era, col raffinarsi della tecnica dell’Opus Caementitium, abili architetti inventarono nuove strategie progettuali, nel momento in cui poterono impiegare tale materiale per la costruzione di volte e cupole.
E’ sorprendente scoprire come gli ingegneri romani avessero già sperimentato anche il principio del moderno cemento armato. In un ipocausto che veniva, come di consueto, fornito d’acqua calda attraverso le condutture, l’elemento più sorprendente consiste nel fatto che nella copertura di una di queste canalizzazioni realizzate, appunto, in Opus Caementitium, gli archeologi abbiano rinvenuto armature di rinforzo in ferro annegate nel conglomerato. Si sono anche ritrovate armature in ferro intrecciate a forma di rete nelle coperture dell’Herculaneum e delle terme di Traiano a Roma.
Sono state condotte indagini sulla resistenza meccanica di questo materiale, indagando su provini provenienti da strutture storiche romane di tutta Europa, prelevati da manufatti appartenenti alle più ricorrenti tipologie costruttive, quali murature e pareti, fondazioni di colonne, volte di copertura, conserve d’acqua e condutture.
I risultati rilevati dall’indagine conducono ad una sorprendente conclusione: i valori di resistenza alla compressione dei vari Opus Caementitium sono compresi mediamente tra 50 e 400 Kg/cm2 circa, dopo 2000 anni. Essi, pertanto, si sovrappongono, in ordine di grandezza, ai valori di resistenza di un calcestruzzo dei nostri tempi. Ma ciò che stupisce maggiormente e che la scelta della granulometria degli inerti avveniva in modo scrupoloso secondo criteri analoghi ai nostri. Dalla ricostruzione di due originarie curve granulometriche si evince come queste potrebbero perfettamente soddisfare anche le attuali prescrizioni normative.
Il minerale di partenza per la preparazione di un Opus Caementitum e sostanzialmente analogo a quello impiegato oggi per la produzione del cemento e della calce grassa. Alla calce ed agli aggregati, venivano aggiunti composti pozzolanici come il tufo vulcanico e la sabbia ottenuta dalla frantumazione dei mattoni cotti. Il calcestruzzo veniva gettato a strati e la reiterata battitura e costipazione del materiale consentivano una uniforme trasmissione del carico alla struttura. Quindi, per effetto della eguale aderenza tra gli stati, ottenuta dalla compattazione, si otteneva un manufatto d’un solo corpo, con proprietà paragonabili a quelle della pietra.
Si può pertanto affermare che la tecnica della preparazione dell’Opus Caementitium abbia svolto un ruolo fondamentale nella stabilita secolare del costruito nell’Impero Romano e di come la durabilità di siffatte opere sia tutt’ora una testimonianza di rara capacita costruttiva. Più che l’oltraggio del tempo fu l’uomo ad infierire: gli antichi monumenti, sono sempre stati privilegiate cave di pietra per il nuovo fabbricare. Ma ciò che rimane di estremamente prezioso degli Opus Caementitium e che fu oggetto di studio per molti ricercatori dell’800, e il sapiente uso che i Romani seppero fare della pozzolana.
Pianta del Pantheon disegnata da Andrea Palladio
E’ qui da osservare in che modo si sia appurato che le malte romane vitruviane mostrano di avere un setto poroso tale da porle fra i composti con il miglior coefficiente alla diffusione al vapore nonostante il loro peso specifico. Ecco enunciata la composizione della malta definita “Pantheon”, composta come prescritto dalla ricetta originaria:
calx intrita (calce spenta di fossa),
pulvis Baianus (pozzolana di Baia),
testa tunsam (coccio pesto),
pumex et (pomice),
sabulum (sabbia silicea).
L’impasto battuto ed essiccato, mostra di avere un peso specifico medio di 2,0 Kg/litro e, nonostante ciò, il relativo coefficiente di diffusione al vapore (μ) e pari a 3. Si noti poi che, nell’impasto nel quale tutta la calce [Ca(OH)2] si e combinata con i silico-alluminati delle pozzolane (pozzolana di Baia, cocciopesto, pomice), non vi e alcun residuo di calce libera. Avendo come aggregato sabbia silicea (sabulum), che resiste egregiamente all’aggressione chimica e non carbonatica, ben si comprende come questi manufatti abbiano resistito integri alle ingiurie del tempo nei secoli.
DELLE MALTE “PORCELLANE”
Da qualche anno, in tutto il mondo, molti ricercatori, che si occupano di materiali per il restauro monumentale storico, si stanno assiduamente applicando per trovare spiegazioni che possano dare adeguate risposte alle istanze che vengono da chi e preposto al riproponimento di materie e soluzioni, che abbiano la medesima bellezza e longevità di quelle storiche. Come e già avvenuto in altri casi, la risposta viene ancora dall’opera di chi ci ha preceduto.
Ecco cosa si legge in un capitolo nel piccolo tomo Manuale D’Architettura (1629) di Giovanni Branca, l’ascolano.
“Nuova materia all’Architettura massimamente per gli ornamenti più delicati può somministrare la nuova Plastica de’ Tartari inventata dallo Scrittore di queste aggiunte, e della quale a spese del medesimo, […] se n’e eretta modernamente una fabbrica a i Bagni di S. Filippo in Toscana con privilegio Reale. Con questa nuov’Arte l’acque di quei Bagni si lasciano sopra cavi, o sieno forme un tartaro bianco lattato, duro a piacimento fin' a farlo superare la durezza del marmo Carrarino Statuario, dependendo ciò da alcune leggi, […] risistente alle ingiurie quanto il travertino, improntato fedelmente di tutti i tratti anche più minuti e capillari, che abbia il modello”.
La singolarità di questa indicazione risiede nel modo con cui il Branca suggerisce di replicare pezzi di statue e capitelli, mediante la preparazione di un suo ritrovato da versare in stampi confezionati per la riproduzione di “capricciosissimi” pezzi originari.
Non esiste in letteratura nessun riferimento a malte che facciano pronta presa (idrauliche), che raggiungano resistenze alla compressione tali da sorpassare in durezza il celeberrimo marmo di Carrara. Evidentemente l’innovazione sta nell’uso di un ingrediente (una sorta di pozzolana), che dia nervo e resistenza alla malta e che nel contempo rimanga di color “bianco lattato” come altrimenti nessuna pozzolana può fare.
Dalla lettura del Branca si intuisce che egli e depositario di un qualche “segreto” che non vuol svelare, un segreto di Bottega che solo lui e pochi altri conoscono e che gli permette di sfruttarlo in una “nuova fabbrica”. L’inventamento (personalmente provato dal Branca medesimo), che egli rende pubblico attraverso le pagine del suo Manuale, sta fra la semplice testimonianza di una verità che proviene da lontano e il riproponimento di un precetto che non può che essergli pervenuto dalla tradizione di Bottega.
Non vi e alcun dubbio che il miracoloso “Tartaro bianco lattato”, di cui egli orgogliosamente disquisisce, altro non e che una malta “porcellana” in uso presso i mastri.
Terme San Filippo, nel Parco della Val d'Orcia in provincia di Siena
In documenti d’archivio quattrocenteschi si trovano notizie sul trasporto via mare, dai monti della Tolfa, dietro Civitavecchia, d’un minerale che veniva impiegato per conciare le pelli e per preparare tinteggi per i tessuti. L’elemento ricercato era il cosi detto allume di rocca, ovvero l’alluminato di potassio, ben conosciuto nelle Botteghe di pittura. Tale allume era estratto dal minerale importato. Ciò che rimaneva, dopo la selezione, era caolino con qualche traccia di alluminato. Coscientemente o per avventura, i mastri calcinai genovesi mescolarono il materiale a calcari magnesiaci (molto comuni sul territorio ligure) ed ottennero, calcinandoli a bassa temperatura, un materiale, che usato per formare delle malte, si dimostro un formidabile legante idraulico. E poiché le malte cosi preparate si mostravano bianche, nitide e lucide come la preziosa terraglia cinese, l’impasto rimase nella tradizione genovese, col nome di “porcellana”, sin dai secoli antecedenti l’affermazione che si trova nel manuale del Branca e pertanto una vera e propria innovazione non la si può definire.
I genovesi conoscevano da tempo, per tradizione, l’uso del caolino calcinato per rafforzare le loro malte e questa tecnica, ancor per tradizione, essi stessi devono averla appresa e consolidata, attraverso pratiche consacrate da millenni di esperienza, da chi li aveva preceduti in quest’Arte, probabilmente dai Fenici.
E’ certo che, una volta provato in laboratorio il comportamento di una mistura di calce idrata d’origine ligure e di caolino della Tolfa, calcinato a bassa temperatura, come raccontano i vecchi artieri genovesi, non si può non intuire, che probabilmente l’uso di questi innovativi leganti potrebbero condurci sulla giusta strada.
I fenomeni di presa idraulica fra materiali cotti a temperature inusualmente basse, contrastano con l’ormai radicata convinzione che, più alta sia la temperatura di cottura dei materiali, più alta sarà la resistenza alla compressione dei manufatti con essi composti. I resti di antiche malte “porcellane” ritrovate a Porto Vecchio, a Genova, e le antiche “misteriose” malte pozzolaniche romane, dimostrano esattamente il contrario.
I risultati preliminari, che concernono il fenomeno generale di indurimento del metacaolino (caolino calcinato) mescolato all’idrossido di calcio, come agente attivante, sono cosi stupefacenti da far pensare che forse, a guardare nelle pieghe dell’empirico, si possono trovare quelle risposte, che la ricerca scientifica ottocentesca non seppe del tutto spiegare.
Il caolino
Orbene, mescolando l’antichissima arte dei Magister Calcariarum della preparazione dell’Opus Caementitium, con la sapienza empirica dei costruttori genovesi, si arriva oggi a disporre di leganti di grandissima affidabilità. Questa, infatti, è la premessa su cui si è fondato lo studio e la realizzazione del legante denominato “Calce Pozzolanica Pantheon”.
Il legante formulato e una calce idraulica (FL 5.0, secondo la normativa UNI EN 459-1:2010), composto a freddo, ottenuto dalla mistione di calce idrata in polvere, ad alto titolo di idrato di calcio (98%), calcinata a bassa temperatura (850°C) e selezionata con appropriati separatori. La parte pozzolanica e costituita da pozzolane naturali zeolitiche, rafforzate da composti caolinitici (2SA) micronizzati. Il rapporto fra idrato di calcio [Ca(OH)2] e prodotti pozzolanici e stato raggiunto dopo una attenta indagine sullo Chapelle, ovverosia l’indice di pozzolanicità. (L’indice di Chapelle determina la quantità di milligrammi di idrato di calcio che si combinano con 1000 grammi dello specifico aggregato pozzolanico in esame, all’atto dell’idratazione).
La carica da aggregare al legante nella formulazione e una ponderata quantità di pura polvere silicea, composta in curva granulometrica continua, selezionata fra 0 e 40 μmicron, eventualmente modificata con filler super-leggeri a base di silicoalluminati, idrati, espansi, al fine di raggiungere il peso specifico voluto.
La Calce Pozzolanica Pantheon, che e la sintesi di tutti i leganti descritti nei documenti d'archivio, da Vitruvio alla letteratura più recente, e perfettamente compatibile con le strutture storiche d’ogni tempo, ed e estremamente versatile nella preparazione di ogni tipo di malta si voglia usare nell’opera di restauro.
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